Per Storieria anche il fagiolino…
Di quelle giornatacce indimenticabili. Di quelle che cominciano male e continuano anche peggio.
Lo stress potrebbe sembrare semplice letteratura, un’idea, altre invece si rivela per quello che è: una condanna. Irreversibile.
E tutto sembra precipitare e lavorare contro. Niente funziona e la minima possibilità di venir via da quello stato penoso, sembra portare solo a un successivo peggioramento della situazione. Nessuna scappatoia o sotterfugio. Siamo nati per soffrire e dunque soffriamo!
Suona, nel bel mezzo di una mattinata di merda, il citofono: “Ti metto un pacco in ascensore”.
Una frase insignificante in fondo, ma che arrivava nel mezzo di una mattinata di…già detto, il concetto è chiaro. Una congiura, sicuramente una configurazione astrale negativa, di quelle che è meglio se te ne stai a casa, nel letto e chiudi gli occhi al mondo. E già rispondere al citofono, quando è evidente che gira così male, è un pericolo, oltre ad essere una seccatura senza pari. Figuriamoci poi se il tipo – al secolo l’ignaro marito, che di default non va scagionato – ti citofona per dirti: “apri la porta”, e lo fa con un tono che non ammette repliche. Allora ti senti invitata a smettere qualsiasi attività, a lasciare quello che stavi facendo, a precipitarti verso l’ascensore – la sua fretta non comprende indecisioni, tentennamenti – ad aspettare che salga – ma ovviamente è già piena e sta facendo il suo giro turistico solo per farti un nuovo dispetto. Che fuoriesca il materiale umano a un piano diverso dal tuo, e che lui – finalmente – pigi sul pulsante per richiamarlo, mentre minuti preziosi trascorrono, senza che nessuno possa farci nulla, ma proprio nulla. Che infine la cabina scenda, che lui la apra, che ci infili dentro lo stramaledittessimo pacco (e che sarà mai?), che le luci si spengano, e che lui al colmo dell’irritazione (lui!!!), ti dica: ”Chiama!”. Mentre tu non aspettavi altro che sentirtelo
dire, e pigi – a giusta ragione, al colmo dell’irritazione – ripetute volte sul pulsante per richiamarla. Aspettando fremente che salga, per aprire – per nulla curiosa anzi, diciamolo, piuttosto incazzata – certa però che tutto stia arrivando a compimento, e che tu finalmente possa ritornare alle tue cose interrotte. Invece ti compare davanti, beffarda, un’intera cassa di fagiolini, a filiera zero, a coltivazione bio, a basso impatto ambientale, da sfilacciare e da amputare alle estremità.
Se c’è un dio della rabbia credo mi abbia invasa con tutte le sue truppe, senza lasciare un solo spazio libero.
La bile – della giusta densità – già faceva capolino agli angoli della bocca. Schiumavo, senza potermela prendere con nessuno (non in quel momento perlomeno), gli occhi iniettati di sangue, le narici strette, frementi. Acido, una serie di rigurgiti acidi e pestilenti.
Intanto sei chili di fagiolini mi guardavano candidamente dal loro cassettino di cartone riciclabile.
Li ho scaraventati senza pietà sul pavimento, credo di aver sfilato un’intera corona (andata e ritorno) di maledizioni, ma poi ho respirato profondamente. Dovevo – proprio me lo dovevo – trasformare la situazione, capovolgerla, ribaltarla, modificarla, venirne via.
Dovevo – proprio me lo dovevo – abbassare la presa dell’amigdala. Dovevo liberarmi dal sequestro emozionale che mi teneva avvinghiata. Dovevo pagare il mio riscatto e liberarmi da quella morsa allo stomaco.
Ho allora tentato un recupero in termini di lucidità. Una cosa di-ffi-ci-li-ssi-ma. Ho silenziato il mio cervello primitivo e messo in atto una serie di azioni coerenti e finalizzate: dovevo occuparmi dei fagiolini. Ho preso due capienti ciotole, un paio di forbici e mi sono seduta.
Posizione del loto, padmasana, che ho poi scoperto essere una delle posizioni yoga più importanti in assoluto, il cui effetto si estende a tutto il corpo favorendo anche la meditazione, e ho cominciato a ripetere – sì lo ripetevo per davvero – inspirando ed espirando profondamente: “ooooooohhhhhhhhhhhmmmmmmmmmm”, e ancora: “ooooohhhhhhhmmmmmmmmmmm”.
Un richiamo di energia salvifica, un calmante, un rilassante del miocardio, per abbassare livelli di tensione furibonda.
Ho quindi iniziato a tagliare le due estremità. Un primo fagiolino è passato decapitato nella ciotola. Ne ho preso un altro, stessa operazione; un altro ancora, stessa operazione; un altro ancora, stessa operazione…
Man mano che cadevano annientati nella ciotola, e perdevano quell’aria di sfida, calava la mia tensione. Quei gesti automatici, quel ripetere incessante, quel rifare la stessa operazione per un numero imprecisato di volte, si stava trasformando in un potente esercizio zen. Volevo che lo fosse.
Una “non azione”, in cui avevo smesso di esistere per il mondo e c’ero solo io. E quell’angolo di cucina si era trasformato in uno spazio dedicato – il mio rifugio medidativo – e quella postura costante, statica, quasi immobile – se si esclude il movimento delle mani – in un fare focalizzato, volontario, in cui mi arrivavano sensazioni. Inizialmente sensazioni solo tattili: la superficie rugosa del fagiolino, l’estremità di plastica delle forbici, la rigidità puntita dei peduncoli, fino alla percezione più piccola…che si andava accompagnando – via, via – a una sensazione di quiete, inaspettata. Quel focalizzarmi su piccole azioni, mi stava portando via da quella sensazione di vittima sacrificale. Quella involontaria pratica si stava rivelando un potente esercizio di meditazione, nel qui e ora.
Il mio fagiolino zen stava contribuendo a darmi risultati straordinari.
Oggi, la pratica del fagiolino zen è una pratica consolidata e condivisa, che spesso racconto come una utile e impensabile pratica trasformativa.
Morale: se vuoi avere amici rilassati, più fagiolini per tutti!
Matilde Cesaro per Storieria