Storieria coltiva parole per esprimere le storie. Questa che segue nasce dalla penna di Matilde Cesaro, fiore all’occhiello del nostro team.
All’alba di ogni giorno controllava se n’erano nate di nuove. Pronta a raccogliere ogni più piccola forma di vita. Ne coltivava così tante, e da così tanto tempo, che l’avevano soprannominata: “La coltivatrice di parole”. Erano la sua magnifica ossessione. Ogni tanto qualcuno infrangeva il suo isolamento. Di solito qualche curioso attratto dall’alone di mistero che la circondava. La coltivatrice di parole li accoglieva nella sua serra. Era questo un luogo magico, in cui tutto sembrava farsi vivo e vivace, sotto il suo sguardo attento. Volumi e volumi di parole scritte a mano, stavano tra alambicchi di vetro e spezie d’ogni tipo venute da paesi lontani. I visitatori si guardavano attorno con aria incredula, a volte beffarda (non tutti però), si sedevano sulle poltroncine di paglia bianca e aspettavano che lei passasse.
La coltivatrice di parole non si perdeva in preamboli. Sapeva perché i visitatori erano lì: volevano assistere allo spettacolo delle parole. E allora li accontentava, chiudeva gli occhi e… ne nominava una. Una a caso, non importava se nata da poco o più avanti negli anni, la parola evocata si faceva avanti, si mostrava, esibiva una sua forma precisa, una sua profondità, una sfumatura, una saporosità. La parola passava poi a narrare la sua storia, e cominciava dall’inizio: com’era nata, da chi, da dove era venuta, e come si era trasformata nel tempo, i suoi passi, il suo cammino. Non lesinava sugli incontri – soprattutto quelli fatali – e sui versi che andavano componendosi quando c’era lei, e gli interi periodi che acquisivano significato e riempivano intere pagine bianche in silenziosa attesa. Non nascondeva i momenti bui, le esitazioni – quelle poi non mancavano mai – le incongruenze, le incertezze, che, a mano a mano e per una specie di sortilegio, lasciavano il posto a una nuova fluidità, a una meravigliosa scorrevolezza…
La parola dunque si mostrava al visitatore curioso e anche a quello diffidente o incerto. Una volta evocata, la potevi osservare, anche sfiorare, ma solo per un attimo, ne potevi aspirare l’odore, impregnartene fino al cuore, ma mai – non era possibile nemmeno pensarlo – possederla del tutto.
La coltivatrice di parole, dopo la rappresentazione – cui tutti assistevano con grande stupore – si fermava, chiudeva gli occhi, s’immergeva nel silenzio prima di parlare di nuovo con i suoi attenti visitatori.
Sapeva che avrebbe dovuto soddisfare la loro curiosità fino in fondo. Anche loro avrebbero voluto sapere come tutto era cominciato, perché proprio lei, perché proprio in quel luogo.
Il racconto allora riprendeva: mai avrebbe pensato che, nella vita, sarebbe diventata una coltivatrice di parole. Aveva studiato all’università per diventare una specie di ministro degli affari e dispiaceri esterni e interni. Aveva approfondito la lingua del disagio, del dolore, delle difficoltà ma poi non ne aveva fatto più niente. Aveva accantonato il progetto, chiuso in un cassetto, in attesa di tempi migliori. Aveva fame di mondo, e artigli al posto delle mani. Non aveva ancora una direzione precisa, procedeva a tentoni, affannata e inquieta. Non aveva tempo per fermarsi a riflettere, e a cosa poi? E nemmeno c’era tempo per rispondere a quelle domande insidiose che l’abitavano sempre con maggiore frequenza. E perché poi? Anzi meglio zittire quella vocina esigente e stizzosa che pretendeva di essere presa in considerazione. Non c’era tempo, non c’era tempo, si ripeteva e fuggiva via.
Le parole intanto e suo malgrado la circondavano, erano lì intorno a lei, ma ancora mute, silenziose, isolate. Qualche volta ne prendeva qualcuna, così a caso, e le combinava, ma solo per vedere cosa succedeva. Rimaneva stupita dalla forza che emanavano, dimostravano un grande carattere, una gran voglia di esserci. Ma poi le lasciava lì, come in attesa, indecisa sul cosa farne.
Polverose parole, scampoli di narrazioni, storie interrotte a metà, personaggi trasandati, ingolfati da attacchi maestosi che si spegnevano dopo un po’, indizi spenti di trame subito messe via, inutilizzate.
La coltivatrice di parole (ancora non lo era diventata però), fu raggiunta all’improvviso da una notizia che aveva dello straordinario: in un piccolo e coraggioso museo si trovava un capolavoro. Un lenzuolo di canapa, interamente scritto a mano, parole di stoffa per celebrare anni di vita insieme, un amore volato via troppo presto, sacrifici non compensati, un matrimonio interrotto, la necessità di ricordare, di scrivere di un tempo trascorso insieme, di piccole abitudini quotidiane. Un museo della memoria, un luogo della testimonianza, lo esponeva come si fa con una reliqua.
Righe ordinate di un tempo d’amore che s’intrecciavano a parole di quotidiano. Righe di storia di vita si componevano in una continuità impressionante, forti nella struttura e nel contenuto. Erano parole libere che non temevano la forma, il giudizio letterario. Erano parole di terra, parole di pane, parole di lacrime e di sangue, parole di attesa, parole di silenzio, parole di gioia, parole di sorpesa, parole di ricordo, parole di morte, parole di nascita, parole di speranza.
La coltivatrice di parole decise di percorrere quei chilometri – un impulso insopprimibile – voleva vedere anche lei quel lenzuolo leggendario, voleva sfiorarlo, essere certa che esisteva per davvero. Parole trasmigrarono come per magia, le lambirono il cuore, la resero prigioniera di un incanto. Dovè sedersi, fermarsi e ascoltarsi. Anche le sue parole chiedevano di essere liberate, nominate, scritte. Chiedevano di poter essere.
Un borgo medievale, di poco distante dalla teca del lenzuolo, Anghiari – il paese della memoria. La coltivatrice di parole lo raggiunse in un giorno di gennaio. Stradine in salita, un muro di cinta, la sagoma maestosa di un castello. Un riparo per proteggere e conservare i ricordi, la memoria delle persone, dei luoghi, delle cose, degli eventi. In questo luogo le parole trovavano riparo, accoglienza, si animavano. In questo luogo era possibile scrivere le tante parole cumulate, era possibile scrivere la propria storia di vita.
La coltivatrice di parole scrive di sé, e lo fa per la prima volta, scrive degli incontri, e degli amori e delle separazioni. Scrive di lutti, di bimbi mai nati, di viaggi interrotti, di sogni seppelliti. Scrive di ricordi che non pensava più di avere, di primi abbracci, e di quel bacio appena sfiorato venuto fuori chissà da dove. Scrive di mani che si cercano, di parole d’amore, di desiderio, di vicinanza, di mancanza.
Scrive di parole, scrive con le parole, e comincia a coltivarle perché possano diventare numerose e mettere radici e fortificarsi. E queste germinano, e crescono, e si fanno belle, e preziose, e le fanno compagnia, a volte la spiano, la precedono, altre la incalzano perché si occupi di loro.
Lei comincia a coltivarle, ancora non sa bene come si fa, ma si mette alla prova, guarda nel giardino di chi lo ha già fatto da tempo, sperimenta nuovi modi, mai veramente soddisfatta, elimina erbacce, fa pulizia, resta a guardarle, ancora troppo giovani per sbocciare.
Il tempo diventa suo prezioso alleato.
Un tempo per conoscerle meglio, per entrare in sintonia con loro, per scoprire nuovi significati. Un tempo per metterle insieme, perché possano fiorire in una girandola di storie.
Un tempo per alleggerire, per sfrondare, per potare, per eliminare parti superflue che affollerebbero inutilmente.
E un tempo del silenzio per farle riposare, in attesa della loro stagione, della loro fioritura, senza forzare, senza costringere…
Da quel momento la coltivatrice di parole non ha più smesso di seminare e di aspettare, di raccogliere e di comporre.
E le parole, grate, la ricompensano per la cura e le attenzioni ricevute, mostrandosi ai visitatori curiosi, che attendono pazienti di poterle vedere finalmente da vicino.
Matilde Cesaro per Storieria
ph:Catrin Welz Stein